ROBE DA MATTI... O DA GATTI
- Lorenzo Poggi
- 15 mar 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Questa volta non ce la faccio a stare zitto. Proprio no. Il gatto non me lo devono toccare e devo reagire, è più forte di me.
Chi mi conosce bene sa che ho un po’ il dente avvelenato nei confronti di una certa psicoanalisi, di quella troppo rigida e miope. Ho il dente avvelenato perché mi ha fatto male e penso che faccia male.
Di solito però me ne sto zitto e vado avanti per la mia strada, ma questa volta proprio non riesco.
Non riesco perché mi hanno toccato il gatto.
Mi spiego meglio.
Come tutti in questo particolarissimo momento, anche noi psicologi siamo costretti a rivedere il nostro modo di lavorare.
Proprio qualche giorno fa avevo infatti scritto un post in cui invitavo i colleghi a non perdere lucidità davanti all’idea di perdere qualche seduta o qualche paziente lasciando questi a casa e proponendogli modalità di contatto alternative come il telefono o Skype.
Naturalmente sono consapevole che queste alternative possano creare un certo disorientamento, nel paziente come nel terapeuta, così come che inevitabilmente “azzoppino” la comunicazione privandola di preziosissimi dettagli: l’immediatezza degli sguardi, i movimenti del corpo, la diversa qualità di un silenzio condiviso in una stessa stanza…, ma sostenevo che “fare psicoterapia” è anche promuovere e salvaguardare la salute fisica del paziente, così come fare il bene comune.
Poi però venerdì mi sono imbattuto in un intervista su Repubblica allo psicoanalista Stefano Bolognini, una delle voci psicoanalitiche più autorevoli in Italia e nel mondo.
Al di là delle condivisibili considerazioni (e mi verrebbe da dire banali, ma forse è il mio dente avvelenato?) sul comprensibile disorientamento di questo periodo, sul bisogno di rassicurazioni e sulla necessità di affidarsi responsabilmente alle autorità competenti, mi sono però imbattuto in questo passaggio:
“La maggior parte di noi sta facendo sedute a distanza, via Skype. Ma non è la stessa cosa in quanto per la prima volta lo psicoanalista entra in casa del paziente: vede una parete, dei libri, un gatto che balza alle spalle. Il paziente lo sente, perde il senso rassicurante di un’assoluta separatezza tra casa e studio analitico.”
Cosa?!!!
Ecco, queste sono le cose che detesto della psicoanalisi.
Mi volete spiegare che male c’è a vedere una parete? Dei libri? Il gatto?!!!
Capirei se Bolognini avesse tirato in ballo la possibilità che qualcuno (parente, coinquilino) possa compromettere la privacy della chiamata o rendere difficile trovare il momento giusto per farla, ma una parete che rompe il senso rassicurante di un’assoluta separatezza tra la casa e lo studio analitico?!!!
Nella mia esperienza questa separatezza non è affatto rassicurante per il paziente, che invece, così come “ci fa entrare in casa sua” con tutti i suoi racconti, così apprezza tutte le volte che “lo facciamo entrare in casa nostra” svelando qualcosa di noi con un commento, un atteggiamento, una smorfia, un aneddoto. E sempre nella mia esperienza nessun paziente abusa di questa disponibilità. Anzi mi verrebbe da credere che ad abusare forse sono proprio quei pazienti comprensibilmente frustrati dalla mancanza di questa disponibilità dei loro terapeuti per i quali la psicoterapia è qualcosa da tenere assolutamente separata dalle loro rispettive “case”.
Credo quindi che i pazienti siano in una qualche misura contenti di mostrarci le pareti di casa loro, naturalmente con la stessa cautela con cui ci raccontano i loro segreti, un po’ alla volta, non tutti, quelli che credono importanti da raccontare… e quindi magari si collegheranno dalla sala o dalla camera da letto e non dal bagno con le mutande sullo stendino sullo sfondo.
Così come credo che l’assoluta separatezza tra la casa e lo studio analitico sia rassicurante per quei terapeuti che hanno paura di stabilire un reale contatto umano con i loro pazienti, che confondono l’intimità e i legami col parlare di intimità e di legami e che alla fine, coltivando l’idea di una terapia asettica di cui lo studio è sala operatoria indispensabile (e non semplicemente la soluzione pratica più comoda in condizioni di normalità), ora sono i principali responsabili delle insicurezze di tutti quei pazienti che non riescono ad immaginare la terapia senza studio perché non sono mai stati “a casa” ognuno dell’altro.
Concludo con una considerazione sui gatti.
Gli psicoanalisti sono sempre molto attenti alle parole e ai simboli e sono quindi rimasto davvero stupito quando ho letto che anche un gatto che compare sullo schermo può essere un problema per la terapia.
Cosa più del proprio gatto (o cane s’intende…) può rappresentare l’affetto, il calore, l’intimità, la condivisione, l’amore, la vitalità…?
Davvero queste cose sono un problema per la terapia?
NB: nella foto, Babà, il mio gatto.

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